La riduzione dei gas serra: il Protocollo di Kyoto
Dalla prima
pubblicazione riconosciuta a livello internazionale,datata 1988, per opera dell’UNEP, che
illustrava il profilo scientifico dell’innalzamento relativo alle temperature globali —
identificandone le responsabilità nel pulviscolo introdotto in atmosfera da
numerose eruzioni esplosive nell’arco temporale dei due decenni precedenti — sono
stati raggiunti significativi traguardi. L’IPCC, avviato dall’UNEP, ebbe l’incarico di
valutare, in maniera indipendente e obiettiva, i progressivi mutamenti della
situazione climatologica mondiale. Furono chiamati a far parte di questo progetto
ambientale circa 2000 luminari provenienti da oltre 160 paesi. Il loro operato portò a
tre rapporti dettagliati sulle condizioni del Pianeta, attestati come il miglior
riferimento scientifico in materia ambientale, comparabili su scala
internazionale.
Già a partire dal suo
primo rapporto, l’IPCC identificò la CO2 come uno tra i gas responsabili
dell’effetto serra, considerando l’operato dell’essere umano, come una delle cause
principali di tale anomalia. I maggiori dati a disposizione e la migliore accuratezza dei
modelli matematici utilizzati, assicurarono, con determinatezza, che l’attività umana
è alla base dell’accelerazione del processo di riscaldamento del
Pianeta.
Da questo profilo
della situazione si è riusciti a comprendere che solo mediante una drastica
riduzione delle emissioni gassose in atmosfera si potrà evitare il superamento delle
soglie critiche. Così nel 1992, durante la seconda Conferenza Mondiale
sull’Ambiente e lo Sviluppo, svoltasi a Rio de Janeiro, fu istituita la Convenzione quadro
delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), che raggiunse 166
adesioni ed entrò in vigore nel 1994.
Nel 1995 fu riunita
la COP1: la prima Conferenza delle Parti sul Clima che ebbe il compito di stilare un
documento che accordasse le variegate esigenze di sviluppo dei singoli paesi, e
che, allo stesso tempo, mirasse a combattere il fenomeno del surriscaldamento
globale. Dopo circa tre anni, in cui i lavori assunsero un carattere di continuità, in
data 11 dicembre 1997, fu redatta la prima stesura del Protocollo di
Kyoto, che prese il
nome dalla città nipponica ospitante i lavori; la stessa che dette la luce al COP3. Nei
successivi COP, gli stati firmatari misero a punto i dettagli relativi alle
specificità indicate nel Protocollo.
Non tutte le
decisioni prese a Kyoto andarono a rispecchiare perfettamente la volontà espressa,
nel corso degli anni, dal mondo ambientalista. La sua indiscutibile forza
sta, tuttavia, nella sostanziale riduzione delle emissioni di gas serra a livello
planetario e nell’inquadramento dello sviluppo dei paesi più poveri, inseriti
all’interno di un modello di sostenibilità che assicuri anche e soprattutto la loro
crescita. Il Protocollo di Kyoto è stato ratificato da 122 paesi.
L’ultimo stato, in
ordine di tempo, ad aver convalidato il Protocollo è stata la Russia.
L’importantissima ratifica ha consentito allo stesso accordo internazionale di entrare in vigore
ed avere portata vincolante. Kyoto, con il suo formulario redatto e approvato
nel corso della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite
sui Cambiamenti
Climatici, ha visto le applicazioni alle possibili conseguenze dell’effetto serra,
attraverso il metodo precauzionale, — i quindici principi contenuti nella precedente
Dichiarazione di Rio — individuando una serie di azioni prioritarie per la soluzione
delle problematiche inerenti ai mutamenti climatici globali. Il
documento impose ai
paesi sviluppati e a quelli ad economia in transizione identificabili a
livello geopolitico nel complesso facente parte dell’est europeo — di avviare un processo
collaborativo mondiale; legittimato dal principio del “consenso”, esso ha conferito alle
problematiche ambientali importanti connotati di centralità.
Il documento ha
suddiviso i paesi firmatari in tre fasce1:
— paesi
industrializzati: definiti come i responsabili della stragrande maggioranza delle emissioni, sono
tenuti a ridurle complessivamente del 5,2%, nel periodo che intercorre tra il
2008 e il 2012, in ottemperanza ai livelli pattuiti precedentemente, nel 1990;
— paesi in via di
transizione: per i quali sono stati fissati i tetti massimi di emissione, in alcuni
casi anche superiori ai livelli di emissioni calcolati nel 1990;
— paesi in via di
sviluppo: ad essi è riconosciuto il diritto di seguire una propria via di sviluppo
industriale.
Tali paesi non sono
soggetti a nessun obbligo specifico, ed avranno migliori e più ampi margini di
manovra.
Per diminuire le
emissioni si può intervenire sia tramite azioni di portata nazionale (come ad esempio
attraverso politiche di risparmio energetico, la diffusione delle energie rinnovabili,
il riciclaggio e la riconversione dei rifiuti), sia tramite strumenti programmati dal
Protocollo attraverso il principio di localizzazione. Per quanto concerne gli
strumenti applicativi del Protocollo, finalizzati alla riduzione delle
emissioni
(mitigazione) è necessario ricordare il Joint Implementation (JI), il Clean Development
Mechanism (CDM) ed Emission Trading. Il loro ruolo prevede la
possibilità della creazione di mercati di emissione sia nazionali che macroregionali25.
Mediante questi strumenti i singoli paesi possono intervenire sul proprio territorio,
con i propri capitali, per modificare l’assetto del sistema produttivo,
attraverso tecnologie
più efficienti e sfruttando le risorse determinate dalle fonti rinnovabili.
Più nel particolare,
il CDM, permette ai paesi firmatari il Protocollo di investire in progettazioni
collocate nei paesi in via di sviluppo, i quali restituirebbero i quantitativi
relativi alla riduzione di emissione ottenuta con il contributo dei paesi investitori,
mediante crediti di emissione. La Joint Implementation svolge un ruolo similare,
limitandosi a favorire la rapida ascesa dell’implementazione delle tecnologie
eco–efficienti all’interno dei mercati dei paesi industrializzati e firmatari dello
stesso Protocollo, tramite la disposizione di un mercato dei crediti di emissione.
Infine, Emission
Trading consiste nello scambio di quote di emissione: una volta costituito il
mercato di “permessi delle emissioni” gli stati possono acquistare “riduzioni
virtuali” da altri stati capaci di diminuire le proprie ad un livello maggiore di quello
richiesto dal Protocollo.
L’organo
internazionale deputato a provvedere e valutare il progresso avvenuto mediante l’ausilio
degli interventi sopra citati, è l’UNFCCC. Se gli interventi non saranno valutati
idonei e gli impegni assunti risulteranno non rispettati, i paesi saranno perseguibili
a livello di sanzioni. Le sanzioni del trattato danno luogo a due tipologie di
provvedimenti:
— lo stato che
produce una percentuale di emissioni in eccesso rispetto agli obiettivi fissati,
vede le stesse andare ad accumularsi con l’ammontare percentuale di riduzione pattuita
per il secondo periodo del Protocollo (quello riguardante il dopo 2012);
— lo stato
inottemperante potrà essere lasciato fuori da uno o da tutti i meccanismi fissati in
precedenza. Le COP, in questo processo, assumono il valore di rendez–vous annuale, per un
consuntivo del trend riguardante il Protocollo; esse mutarono il loro nominativo in
MOP (Meeting of the Parties). Il Protocollo è stato
teatro, fra l’altro, di ingombranti problematiche in ottemperanza alle ratifiche. Il
criterio minimo di adesione dei singoli paesi, a fronte del trattato, prevedeva per
l’entrata in vigore la firma di 55 stati che detenessero almeno il 55% delle emissioni
di anidride carbonica. I problemi scaturiti dalla mancanza del
benestare di America
e Russia congelarono, per molto tempo, l’entrata in vigore del concordato.
Soltanto il 16 febbraio 2005 il Protocollo è entrato in vigore, grazie all’ingresso della
Russia.
1.Cfr. SICURELLI D., Divisi dall’ambiente. Gli USA e l’Unione Europea nelle politiche del clima e della
biodiversità, Vita e Pensiero, Milano 2007.
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